Michele Damasceno, Divina Liturgia, Θεία Λειτουργία, XVI sec., Museo delle Icone e delle Sacre Reliquie dell'Arcidiocesi di Creta, Candia |
Arquivo do blogue
-
▼
2013
(90)
-
▼
junho
(13)
- EUCARESTIA NEGLI SCRITTI DE SAN VINCENZO PALLOTTI...
- LA SANTA MISA .
- Ven. PIO XII : El Augusto Sacrificio del Altar es ...
- O MINISTRO DO SANTO SACRIFÍCIO DA MISSA . VALOR DO...
- O Sacrifício da Santa Missa
- Spiegazione della Santa Messa di Dom Prosper Guéra...
- Ancora sulla Liturgia. Ossia, la Bellezza.
- Spiegazione della messa tridentina di don Ivo Cisar
- S. Alfonso Maria de Liguori Apparecchio e ringrazi...
- DON BOSCO: Istruzione sulla s. Messa
- Ven. Pio XII : O augusto sacrifício do altar . Ven...
- SUA SANTIDADE BENTO XVI: vorrei meditare con voi s...
- Curso de Liturgia
-
▼
junho
(13)
domingo, 9 de junho de 2013
Ancora sulla Liturgia. Ossia, la Bellezza.
Una giovane lettrice scrive:
«Leggo i commenti sulla dimissione del Papa e mi viene da
sorridere. Ci si affanna a giustificare o a condannare la sua scelta,
inneggiando alla modernità o gridando al tradimento della tradizione. Ho
una età che non mi permette di ricordare la Chiesa prima del Concilio,
ma mi viene da sorridere pensando che forse Dio sta ridendo delle nostre
convinzioni su cosa sia giusto per celebrarLo. Mi viene da pensare che i
riti che seguiamo sono comunque frutto dell’uomo che si è sforzato di
pensare cosa Dio volesse da noi. La sera del Giovedì Santo Egli nella
persona di Gesù ci ha solo detto di spezzare il pane e di condividerlo e
che quel pane, dopo quel semplice gesto fatto in Suo nome diventa il
Pane di Vita. Tutto ciò che è venuto dopo è stato solo frutto dell’uomo,
magari dell’uomo illuminato dalla Verità, ma pur sempre dell’uomo. Non
so cosa aspettarmi nei prossimi tempi, credo che arriveranno giorni
duri, dove non potremo più parlare di infallibilità del Papa e dove
ognuno sarà solo con ciò che ha maturato nella sua fede. Per quel che mi
riguarda ho paura che sarà troppo poco, ma prego Dio di farmi ricordare
sempre le parole di quel fraticello cappuccino definito santo da
Blondet. Un giorno che gli dissi che a volte mi trovavo smarrita davanti
ai riti della Messa, non capendone il senso e la necessità mi rispose:
«Hai ragione, penso che capiti un po’ a tutti, ma a me basta sapere che
lì dentro, e mi indicò il Tabernacolo, c’è Dio e che mi ama». Da allora
cerco di farmi bastare questa Verità sperando che mi sostenga nei giorni
che devono venire, perché i riti senza il cuore dell’uomo non sono
niente.Alessandra»
Certo, cara Alessandra: «i riti senza il cuore dell’uomo non sono niente». Ma dimentichi altre parti della questione.
Una: i riti nascono dalla carità apostolica per i fedeli. Sono fatti
per «sostenere» il cuore dell’uomo, cuore sempre in pericolo di
distrarsi e di seguire le sue passioni, anziché l’essenziale, che è
(secondo il catechismo) «adorare, servire ed amare Dio in questa vita e
goderlo eternamente nell’altra». Difficile, per noi creature zoologiche,
adorare ed amare l’Invisibile, senza «segni»: e occorre che questi
«segni» siano forti, profondamente significativi, risonanti nel profondo
dell’anima.Seconda questione: il rito della Messa è anche un onore a Dio, alla sua Maestà. Gli vogliamo offrire qualcosa di bello, alto e nobile, o invece di sciatto, brutto, senza le dovute forme?
Pensa alle chiese antiche: furono costruite da nostri antenati che erano poveri, ma vollero dare a Dio una casa che fosse bellissima di pitture, vetrate, sculture, organi e interna luce spirituale, tutta roba costosissima. E ancor oggi queste antiche chiese spiccano nella città moderna, ossia imbruttita e disumanizzata, come un silenzioso rimprovero. Che cosa rende belle le antiche chiese? La fede nella Verità di Cristo, ossia del Dio che s’è fatto Uomo, e quello conta più di tutto. Che cosa rende brutte le moderne chiese o – se è per questo – case e città? La perdita generale di quella fede.
L’architettura moderna (anche delle chiese) esprime un vero disprezzo per l’uomo, lo fa «star male» apposta: è un segno anticristico. Il «non serviam» di Lucifero. Uno dei tanti segni satanici di cui abbiamo riempito il mondo credendo di «liberarci», e diventare Dei.
La liturgia, è la stessa cosa. È (era) una forma d’arte sacra, la più eccelsa: e come la grande musica classica, si richiedeva che fosse «eseguita» con rigore e senza variazioni arbitrarie di testa dei musicisti, degli esecutori o degli spettatori. Era un concerto offerto al Cristo che, proprio in quel momento, di nuovo moriva sulla croce per noi; ne sottolineava e commentava il dramma, il dolore e la nostra gratitudine, e il pericolo estremo di «mangiare e bere la propria dannazione» se ci si avvicinava al Sacrificio con l’anima macchiata. Ci portava tutti sul Golgota, e il sacerdote che ci rivolgeva le spalle era «uno di noi» che elevava l’Ostia per tutti noi a quella croce del Golgota. Lo faceva con esatte parole tratte dalla Scrittura: nessuna era inventata dalla «creatività personale», nessuna esprimeva «il mio io» piccino sentimentale e presuntuoso; ci si rivolgeva a Dio con le parole che Dio stesso ci aveva dato. Non vi erano ammesse voci e strumenti musicali profani, del mondo, sporcate dalla profanità.
In una parola: la liturgia è , dev’essere, Bellezza. Non sottovalutare mai il valore della Bellezza nel servizio a Dio.
Per Tommaso d’Aquino, il Vero e il Bello sono la stessa cosa (anche il Bene è Verità e Bellezza). Ne consegue che il dominio del Brutto che ci circonda dovunque, anche in chiesa, segnala un allontanamento dalla Verità, dal dogma.
Tu dici: «Ho una età che non mi permette di ricordare la Chiesa prima del Concilio, ma mi viene da sorridere…». È questo che temo per te e la tua generazione, cara Alessandra: quando non sarà estinta la mia generazione, quella che ha conosciuto la Bellezza liturgica e può giudicare lo scadimento attuale, voi non avrete più termini di paragone, e dunque sarete più indifese preda del Brutto – ossia della non-Verità. Già vedo un sintomo di questo sviarsi della Verità-Bellezza nel tuo dire «credo che arriveranno giorni duri, dove non potremo più parlare di infallibilità del Papa e dove ognuno sarà solo con ciò che ha maturato nella sua fede». Avere questa opinione significa già scantonare nel luteranesimo, e nemmeno te ne accorgi… Non è colpa tua, è che il Concilio ha smesso di proclamare la verità dogmatica.
Purtroppo, vi vedo già preda, voi giovani, di bruttezze in tutti i campi del «mondo»; e mi addolora che non abbiate più un’idea del Bello, del nobile e del grande con cui contrastare la deriva. Il Bello è la via al Vero; ma è (anche) un rifugio e un giardino di quiete, e voi non avete più rifugio e né quiete dai rumori mondani, o dall’insignificanza del vivere profano. Peggio, a forza di non vedere il Bello, la gente si abitua al brutto, e non sa che questo fa ammalare l’anima, la rende incapace di contemplare la grandezza morale (i cui esempi sono ormai così rari), ossia di vincere se stessi.
Già il fatto che tu ammetta di non aver mai visto una messa gregoriana (pre-conciliare) ma presuma di inserirti nel dibattito, sarà molto democratico, ma non è tanto bello. È come se uno dicesse: «Non ho mai avuto modo di ascoltare il Concerto Brandeburghese di Bach, ma mi fa sorridere che alcuni lo giudichino superiore a Zucchero Fornaciari, che a me piace e basta ai miei gusti musicali».
Un po’ ti invidio, perché sei stata presente all’Ultima Cena. Sei infatti sicura che Cristo, quella sera fatale, abbia fatto «un gesto semplice: spezzare il pane e condividerlo». Invece io, pensa un po’ mi immaginavo che quella frase: «ecco il mio corpo, ecco il mio sangue» avesse un suono terribile, ascetico ed eroico, che abbia annichilito i discepoli. In quella prima Messa, già gli apostoli, come te, probabilmente si trovarono «smarriti, non capendone il senso e la necessità». Il punto è che non c’è niente da capire, ma solo adorare; ed è la presunzione dell’io moderno che pone questa esigenza di «capire» la Messa: è il Mistero dell’Onnipotente che si fa debole e muore, è semplicemente incomprensibile – se non nell’Amore.
Mi concederai almeno questo: che la sera del Giovedì Santo, Cristo non avrà detto: «E adesso scambiatevi il segno di pace». Come mai allora questo s’è inserito nella Messa «semplice e moderna», senza fronzoli , alla buona, che tu preferisci (perché ti manca il confronto)?
Anche questo è un rituale; anzi, è diventato il rituale più vistoso nella messa d’oggi. Sembra proprio che gli uomini non possano fare a meno dei rituali nelle occasioni pubbliche: nei tribunali, si celebrano i rituali del diritto; se si va in visita al presidente della repubblica, ci si deve attenere a un rituale, che è chiamato «il cerimoniale», e non è ammesso sgarrare, e comportarsi in modo diverso da quello prescritto. Solo nell’incontro pubblico con Cristo crocifisso, che è la Messa, oggi i rituali se li inventano, e ne inventano di nuovi di testa loro, canzoncine ed espressioni e preghierine, e ciò rende l’evento squallido, basso e brutto. E irrispettoso.
La questione di «cosa sia giusto per onorarlo» non è così irrilevante da sorriderci. Papi moderni, post-conciliari, l’hanno ritenuta dolorosamente importante. Joseph Ratzinger, nel 1992, ha scritto parole durissime sulle messe come si celebrano oggi in troppi casi:
«La riforma liturgica nella sua forma concreta s’è allontanata sempre più da questa origine (parlava della messa gregoriana). Il risultato è stato (…) una devastazione. Da una parte si ha una liturgia trasformata in show, nella quale si tenta di rendere al religione interessante con l’aiuto della stupidità, della moda e di massime morali provocanti. (…) Dopo il Concilio (…) al posto della liturgia, frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e di sviluppo per entrare nella fabbricazione. Non si è più voluto il divenire e la maturazione organica di Dio che vive nei secoli e lo si è sostituito a mo’ della produzione tecnica, con una fabbricazione banale del momento».
Paolo VI, il maggio 1964, nella Cappella Sistina, rivolse un’omelia quasi disperata agli artisti che hanno abbandonato l’arte sacra: «Se Noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diverrebbe balbettante e incerto e avrebbe bisogno, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte» (1).
Sono parole impressionanti, che faremmo bene a meditare tutti. E anche i preti: «Far coincidere il sacerdozio con l’arte», perché no? In un mondo senza più ornamento, dovrebbero sentire l’urgenza di fare della liturgia la loro esecuzione artistica più alta e rigorosa, la «sacra rappresentazione» che è e che fu.
Per fortuna e per grazia, vedo dovunque che il Signore sta suscitando quel culto che la messa brutta, e lo spirito dei tempi, gli negano: si diffonde l’Adorazione Perpetua su richiesta dei fedeli, col suo rito dell’Ostensione veramente regale; milioni di fedeli obbediscono alle apparizioni della Vergine e digiunano e pregano, e credono dogmi che avevano dimenticato. Ciò fa sperare che un giorno, da simile fede rinasceranno chiese belle, e la liturgia di nuovo alta, elevante e nobile come i Concerti Brandeburghesi, e non come Zucchero.
1) Trovo queste due citazioni, con gratitudine, in Enrico Maria Radaelli, «La Bellezza che ci salva», 2010.
——————–o0o——————
Breve esame critico del « Novus Ordo Missæ » Presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci
Lettera di presentazione a Paolo VI
Beatissimo Padre,
esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo preparato dagli esperti del Consilium ad exquendam Constitutionem de Sacra Liturgia,
dopo una lunga riflessione e preghiera sentiamo il dovere, dinanzi a
Dio ed alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti:
- Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato – opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime – il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.
- Le ragioni pastorali addotte a sostegno di tale gravissima frattura – anche se di fronte alle ragioni dottrinali avessero diritto di sussistere – non appaiono sufficienti. Quanto di nuovo appare nel Novus Ordo Missæ e, per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto minore o diverso, se pure ancora ve lo trova, potrebbe dar forza di certezza al dubbio – già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti – che verità sempre credute dal popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza infedeltà al sacro deposito dottrinale cui la fede cattolica è vincolata in eterno. Le recenti riforme hanno dimostrato a sufficienza che nuovi mutamenti nella liturgia non porterebbero se non al totale disorientamento dei fedeli che già danno segni di insofferenza e di inequivocabile diminuzione di fede. Nella parte migliore del Clero ciò si concreta in una torturante crisi di coscienza di cui abbiamo innumerevoli e quotidiane testimonianze.
- Siamo certi che questa considerazioni, che possono giungere soltanto dalla viva voce dei pastori e del gregge, non potranno non trovare un’eco nel cuore paterno di Vostra Santità, sempre così profondamente sollecito dei bisogni spirituali dei figli della Chiesa. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, più che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa.
Supplichiamo perciò istantemente la Santità Vostra di non volerci
togliere – in un momento di così dolorose lacerazioni e di sempre
maggiori pericoli per la purezza della Fede e l’unità della Chiesa, che
trovano eco quotidiana e dolente nella voce del Padre comune – la
possibilità di continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale Romanum di San Pio V dalla Santità Vostra così altamente lodato e dall’intero mondo cattolico così profondamente venerato ed amato.
A. Card. Ottaviani
A. Card. Bacci
Corpus Domini 1969
A. Card. Bacci
Corpus Domini 1969
BREVE ESAME CRITICO DEL «NOVUS ORDO MISSÆ»
I
Nell’ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale,
convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione
sperimentale di una cosiddetta «messa normativa», ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.
Tale messa suscitò le piú gravi perplessità tra i presenti al
Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet), moltissime e
sostanziali riserve (62 juxta modum) e 4 astensioni, su 187
votanti. La stampa internazionale di informazione parlò di «rifiuto», da
parte del Sinodo, della messa proposta. Quella di tendenze innovatrici
ne tacque. E un noto periodico, destinato ai Vescovi ed espressione del
loro insegnamento, cosí sintetizzò il nuovo rito:
«[vi] si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In
sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il
sacrificio della Messa».
Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione Apostolica Missale romanum,
ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa
normativa». Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto
tali, siano mai state nel frattempo interpellate al riguardo.
Nella Costituzione Apostolica si afferma che l’antico messale,
promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma risalente in gran parte a
Gregorio Magno e ad ancor più remota antichità (1) fu per quattro secoli
la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito
latino, e, portato in ogni terra, «innumeri præterea sanctissimi viri
animorum suorum erga Deum pietatem, haustis ex eo… copiosus aluerunt». E
tuttavia questa riforma, che lo pone definitivamente fuori uso, si
sarebbe resa necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe
increbescere et invalescere cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium».
Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco.
Perché il desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando –
soprattutto per merito del grande S. Pio X – esso cominciò a scoprire
gli autentici ed eterni tesori della sua liturgia. Il popolo non chiese
assolutamente mai, onde meglio comprenderla, una liturgia mutata o
mutilata. Chiese di meglio comprendere una liturgia immutabile e che mai
avrebbe voluto si mutasse.
Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e
carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che
cosa l’uso di esso, con l’opportuna catechesi, potesse impedire una più
piena partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e
perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia
stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo
cristiano.
Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa «messa normativa» oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ;
il quale non è stato mai sottoposto al giudizio collegiale delle
Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno nelle
missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a
comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una
tradizione immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa
Costituzione Missale Romanum riconosce. Non sussistendo dunque i
motivi per appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di
un fondamento razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al
popolo cattolico.
Il Concilio aveva espresso bensí, con il par. 50 della Costituzione Sacrosanctum Concilium,
il desiderio che le varie parti della Messa fossero riordinate, «ut
singularum partium propria ratio necnon mutua connexio clarius pateant».
Vedremo subito come l’Ordo testé promulgato risponda a questi auspici,
dei quali possiamo dire non resti, nel risultato, neppure la memoria.
Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti
di portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio dato per la
«messa normativa». Quello, come questa, è tale da contentare, in molti
punti, i protestanti più modernisti.
II
Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De structura Missæ».
«Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini celebrandum(2). Quare de sanctæ ecclesiæ locali congregatione eminenter valet promissio Christi “Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18, 20)».
La definizione di Messa è dunque limitata a quella di «cena», il
che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale «cena» è
inoltre caratterizzata dalla assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal
compiersi il memoriale del Signore, ricordando quel che Egli fece il
Giovedì Santo.
Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del
Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore
intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza
dell’assemblea (3). Non implica, in una parola, nessuno dei valori
dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera
definizione. Qui l’omissione volontaria equivale al loro «superamento»,
quindi, almeno in pratica, alla loro negazione (4).
Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma – aggravando
il già gravissimo equivoco – che vale «eminenter» per questa assemblea
la promessa del Cristo: «Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo,
ibi sum in medio eorum» (Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda
soltanto la presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene
posta sullo stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di
quello sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica.
Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in
liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l’affermazione che
nella Messa è preparata la mensa della parola di Dio come del Corpo di
Cristo, affinché i fedeli «instituantur et reficiantur»: assimilazione
paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia, quasi
tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo piú
tardi.
Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte
accettabili relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono,
separatamente e in assoluto. Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi
Dei, Cena dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio
mensæ Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi
et liturgia eucharistica, ecc.
Come è fin troppo evidente, l’accento è posto ossessivamente sulla
cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio
del Calvario. Anche la formula «Memoriale Passionis et Resurrectionis
Domini» è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio,
che è redentivo in sé stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto
conseguente(5). Vedremo piú avanti con quale coerenza, nella stessa
formula consacratoria e in generale in tutto il Novus Ordo, tali
equivoci siano rinnovati e ribaditi.
III
E veniamo alle finalità della Messa.
- Finalità ultima.
È il sacrificio di lode alla Santissima Trinità, secondo
l’esplicita dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale della
sua stessa Incarnazione: «Ingrediens mundum dicit: “Hostiam et
oblationem noluisti: corpus autem aptasti mihi”» (Ps. XL, 7-9, in: Hebr.
10, 5).
- Questa finalità è scomparsa:
- dall’Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta Trinitas,
- dalla conclusione della Messa con il placeat tibi, Sancta Trinitas,
- e dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sara più quello della Santissima Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l’anno.
- Finalità ordinaria. È il Sacrificio propiziatorio. Anch’essa è deviata, perché anziché mettere l’accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituì il Sacramento nell’ultima Cena e si pose in stato di vittima per unirci al suo stato vittimale; questo però precede la manducazione e ha un antecedente e pieno valore redentivo, applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente (6)
- Finalità immanente.
Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito
a Dio e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di peccato
originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il
solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di Cristo.
Nel Novus Ordo si snatura l’offerta in una specie di scambio di
doni tra l’uomo e Dio; l’uomo porta il pane e Dio lo cambia in «pane di
vita»; l’uomo porta il vino e Dio lo cambia in «bevanda spirituale»:
«Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus
panem (o: vinum) quem tibi offerimus, fructum terræ (o: vitis) et manuum
hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus spiritualis)» (7).
Superfluo notare l’assoluta indeterminatezza delle due formule
«panis vitæ» e «potus spiritualis», che possono significare qualunque
cosa. Ritroviamo qui l’identico e capitale equivoco della definizione
della Messa: là il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui
pane e vino «spiritualmente» (e non sostanzialmente) mutati (8).
IV
Passiamo all’essenza del Sacrificio.
Il mistero della Croce non vi è piú espresso esplicitamente, ma in
modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo (9). Eccone le ragioni:
- Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex eucharistica» è:
«ut tota congregatio fidelium se cum Christo coniungat in confessione
magnalium Dei et in oblatione sacrificii». (n. 54, fine).
Di quale sacrificio si tratta? Chi è l’offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi.
La definizione in limine della «Prex eucharistica» è questa: «Nunc centrum et culmen totius celebrationis initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis et sanctificationis» (n. 54, pr.).
Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una sola parola. La menzione esplicita del fine dell’offerta, che era nel Suscipe, non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina. - La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né piú né
meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, così
lampante prima nella liturgia eucaristica. Ve ne è una sola menzione –
unica citazione, in nota, dal Concilio di Trento – ed è quella che si
riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241, nota 63). Alla
Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità
nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa parola
transustanziazione è totalmente ignorata.
La soppressione della invocazione alla terza Persona della SS.ma Trinità (Veni sanctificator), onde scendesse sopra le oblate come già discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale.
L’eliminazione poi:
- delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e una, con eccezioni, del popolo, alla Consacrazione);
- della purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
- della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione;
- della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e non fatta sul corporale;
- della palla a protezione del calice;
- della doratura interna dei vasi sacri;
- della consacrazione dell’altare mobile;
- della pietra sacra e delle reliquie nell’altare mobile e sulla «mensa», quando la celebrazione non avvenga in luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle «cene eucaristiche» in case private);
- delle tre tovaglie d’altare, ridotte a una sola;
- del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui la Comunione in piedi ha il suo aberrante compimento);
- di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta dell’Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico «reverenter accipiatur» (n. 239);
tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l’implicito ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.
- La funzione assegnata all’altare (n. 262).
L’altare è quasi costantemente chiamato mensa (10). «Altare, seu mensa dominica, quæ centrum est totius liturgiæ eucharisticæ» n. 49, (cfr. 262). Si specifica che l’altare deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262); si precisa che esso deve essere il centro della congregazione dei fedeli cosí che l’attenzione si volga spontaneamente ad esso (ibid.).Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una dicotomia irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano un’unica presenza (11).
Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà più il Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e nuda. Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza altare contro altare.
Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi dimensioni (12), così che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla fede nella Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate (13). - Le formule consacratorie.
L’antica formula della Consacrazione era una formula propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose:
- il testo della Scrittura, non ripreso alla lettera; l’inserto paolino «mysterium fidei» era una confessione immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;
- la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere piú grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo;
- l’anamnesi («Haec quotiescumque feceritis in mei memoriam facietis»,
che in greco suona: «eis ten emou anamnesin» – «volti alla mia
memoria»). Essa si riferiva al Cristo operante e non alla semplice
memoria di lui o dell’evento: un invito a ricordare ciò che Egli fece
(«hæc… in mei memoriam facietis») e come Egli lo fece, e non soltanto la
sua persona o la cena.
La formula paolina oggi sostituita all’antica («Hoc facite in meam commemorationem») – proclamata come sarà quotidianamente nelle lingue volgari – sposterà irrimediabilmente, nella mente degli ascoltatori, l’accento sulla memoria del Cristo come termine dell’azione eucaristica, mentre essa ne è il principio. L’idea finale di commemorazione prenderà ben presto il posto dell’idea di azione sacramentale (14).
Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: «narratio institutionis» (n. 55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che «Ecclesia memoriam ipsius Christi agit» (n. 55c).
In breve: la teoria proposta per l’epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell’anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non più enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non: «Hoc est Corpus Christi») (15).
L’acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: («Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec venias») introduce, travestita di escatologismo, l’ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l’attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull’altare: quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta.
Ciò è ancor piú accentuato nella formula di acclamazione facoltativa n. 2 (Appendix): «Quotiescumque manducamus panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias»; dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale e secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo di ambiguità (16).
V
Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
I quattro elementi di esso erano, nell’ordine:
I quattro elementi di esso erano, nell’ordine:
- il Cristo.
- il sacerdote;
- la Chiesa;
- i fedeli.
1) Nel Novus Ordo, la posizione attribuita
ai fedeli è autonoma (ab-soluta), quindi totalmente falsa: dalla
definizione iniziale: «Missa est sacra synaxis seu congregatio populi»,
al saluto del sacerdote al popolo, che esprimerebbe alla comunità
riunita la «presenza» del Signore (n. 28): «Qua salutatione et populi
responsione manifestatur ecclesiæ congregatæ mysterium».
Dunque vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della
Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza.Ciò si ripete ovunque:
- il carattere comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152);
- l’inaudita distinzione tra «Missa cum populo» e «Missa sine populo» (nn. 203-231);
- la definizione della «oratio universalis seu fidelium» (n. 45), ove si sottolinea ancora una volta l’«ufficio sacerdotale» del popolo («populus sui sacerdotii munus exercens») presentato in modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a quello del sacerdote; tanto più che questi si fa interprete, nella sua qualità di mediatore consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nel Te igitur e nei due Memento.
Nella «Prex eucharistica III» («Vere sanctus», p. 123) è
addirittura detto al Signore: «populum tibi congregare non desinis, ut a
solis ortu usque ad occasum oblatio munda offeratur nomini tuo»: ove
l’affinché fa pensare che l’elemento indispensabile alla celebrazione
sia il popolo anziché il sacerdote; e poiché non è precisato neppure qui
chi sia l’offerente (17) il popolo stesso appare investito di poteri
sacerdotali autonomi.
Di questo passo non stupirebbe l’autorizzazione al popolo, tra
qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella pronuncia delle
formule consacratorie (ciò che del resto sembra già accada, qua e là).
2) La posizione del sacerdote è minimizzata, alterata, falsata.
Prima in funzione del popolo di cui egli è caratterizzato per lo
piú come mero presidente o fratello anziché come ministro consacrato che
celebra in persona Christi.
Poi in funzione della Chiesa come un «quidam de populo». Nella
definizione della epiclesi (n. 55c) le invocazioni sono attribuite
anonimamente alla Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto.
Nel Confiteor divenuto collettivo egli non è piú giudice, testimone
e intercessore presso Dio; è logico dunque che non gli sia piú dato di
impartire l’assoluzione, che è stata infatti soppressa. Egli è
«integrato» ai fratres. Persino il chierichetto lo chiama così nel
Confiteor della «Missa sine populo».
Già prima di quest’ultima riforma era stata soppressa la
significativa distinzione tra la Comunione del sacerdote – il momento in
cui, per così dire, il Sommo ed Eterno Sacerdote e colui che agiva in
sua persona si fondevano in intimissima unione (nella quale era il
compimento del Sacrificio) – e quella dei fedeli.
Non piú una parola ormai sul suo potere di
sacrificatore, sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo
mezzo della Presenza eucaristica. Egli appare nulla più che un ministro
protestante.
La sparizione o l’uso facoltativo di molti paramenti (in certi casi
alba e stola bastano – n. 298) vanificano ancor piú l’originale
conformazione al Cristo: il sacerdote non è più rivestito di tutte le
virtù di Lui; egli è un semplice «graduato» che uno o due segni
distinguono appena dalla massa (18): («un po’ più uomo degli altri» per
citare la formula involontariamente umoristica di un moderno
predicatore[19]).
Di nuovo, come nella opposizione degli altari, si separa ciò che Dio ha unito: l’unico Sacerdozio del Verbo di Dio.
3) Infine la posizione della Chiesa di fronte al Cristo.
In un solo caso, quello della «Missa sine populo» ci si degna di
ammettere che la Messa è «Actio Christi et Ecclesiæ» (n. 4, cfr. Presb.
Ord. n. 13), mentre nel caso della «Missa cum populo» non si accenna che
allo scopo di «far memoria di Cristo» e santificare i presenti.
«Presbyter celebrans… populum… sibi sociat in offerendo sacrificio per
Christum in Spiritu Sancto Deo Patri» (n. 60), anziché associare il
popolo a Cristo che offre sé stesso «per Spiritum Sanctum Deo Patri».
S’inseriscono in questo contesto:
- la gravissima omissione delle clausole «Per Christum Dominum nostrum», garanzia di esaudimento data alla Chiesa di tutti i tempi (Io. 14, 13-14,. 15, 16; 16, 23-24);
- l’ossessivo «paschalismo»: quasi che la comunicazione della grazia non presentasse altri aspetti altrettanto importanti;
- l’escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione di una realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è ricondotta alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa peregrinante – non più militante, si badi, contro la Potestas tenebrarum – verso un futuro che non è più vincolato all’eterno (quindi anche all’eterno presente) ma a un vero e proprio avvenire temporale.
La Chiesa – Una, Santa, Cattolica,
Apostolica – è umiliata come tale nella formula che, nella «Prex
eucharistica IV», ha sostituito la preghiera del Canone romano «pro
omnibus orthodoxis atque catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus». Ora
essi sono, né piú né meno: «omnium qui te quærunt corde sincero».
Cosí, nel Memento dei morti, questi non sono piú trapassati «cum
signo fidei et dormiunt in somno pacis» ma semplicemente «obierunt in
pace Christi tui»; ad essi si aggiunge, con nuovo e patente scapito del
concetto di unitarietà e visibilità, la turba di «omnium defunctorum
quorum fidem tu solus cognovisti».
In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno, come
già si è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati, in nessuna la
possibilità di un Memento particolare: il che, ancora una volta, snerva
la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio (20).
Omissioni dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa.
Esso è misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra: Angeli e
Santi sono ridotti all’anonimato nella seconda parte del Confiteor
collettivo: sono scomparsi come testimoni e giudici, nella persona di
Michele, dalla prima (21).
- Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza precedenti) dal nuovo Prefazio della «Prex II».
- Soppressa nel Communicantes la memoria dei Pontefici e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che furono senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e le completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa romana.
- Soppressa, nel Libera nos, la menzione della B. Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro intercessione non è quindi più chiesta neppure nel momento del pericolo.
- L’unità della Chiesa è compromessa fino all’intollerabile omissione, nell’intero Ordo, comprese le tre nuove «Preces» (e con la sola eccezione del Communicantes del Canone romano), dei nomi degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli altri Apostoli, fondamento e segno della Chiesa unica e universale.
- Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi: la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di tutte le salutationes e della benedizione finale; dell’Ite Missa est (22), poi, persino nella messa celebrata con l’inserviente.
- Il doppio Confiteor mostrava come il prete, in veste di ministro di Cristo e in profonda inclinazione, riconoscendosi indegno dell’alta missione, del «tremendum mysterium» che andava a celebrare, e addirittura (nell’Aufer a nobis) di entrare nel Santo dei Santi, invocava ad intercessione (nell’Oramus te, Domine) i meriti dei martiri di cui l’altare racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere sono state soppresse. Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio Confiteor e la doppia Comunione.
- Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di una cosa sacra: vedi ad esempio la celebrazione fuori del luogo sacro nel qual caso l’altare può essere sostituito da una semplice «mensa» senza pietra consacrata né reliquie, con una sola tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale quanto già detto a proposito della Presenza Reale: dissociazione del «convivium» e sacrificio della cena, dalla stessa Presenza Reale.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove, grottesche modalità dell’offerta;
- l’accenno al pane anziché all’azimo;
- la facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella comunione sub utraque specie) di toccare i vasi sacri (n. 244d);
- la inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si alterneranno senza tregua sacerdote, diacono, suddiacono, salmista, commentatore (il sacerdote stesso par divenuto tale, continuamente incoraggiato com’è a «spiegare» ciò che sta per compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti, fanno la colletta, portano e smistano offerte;
- e, in tanto delirio scritturistico, la presenza antiveterotestamentaria, antipaolina della «mulier idonea» che, per la prima volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le lezioni e adempiere anche ad altri «ministeria quae extra presbyterium peraguntur» (n. 70).
- Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere la pietà eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura centrale del Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella presenza collettiva dei concelebranti (23).
VI
Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue
deviazioni più gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le
osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico.
Una valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi
spiritualmente e psicologicamente distruttivi che il documento contiene,
sia nei testi come nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben
altra mole di lavoro.
Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro
forma e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il
secondo(24) ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità.
Di esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere
celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non creda
più né alla transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e
che quindi si presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di
un ministro protestante.
Il nuovo Messale fu presentato a Roma come «ampio materiale
pastorale», «testo più pastorale che giuridico» su cui le Conferenze
Episcopali avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio
dei vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova Congregazione per
il Culto Divino sarà responsabile «dell’edizione e della costante
revisione dei libri liturgici».
Scrive l’ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici di Germania, Svizzera, Austria (25):
«i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari
popoli; lo stile “romano” dovrà essere adattato all’individualità delle
Chiese locali; ciò che fu concepito al di fuori del tempo deve essere
trasposto nel mutevole contesto di situazioni concrete, nel flusso
costante della Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni».
La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di grazia alla lingua
universale (in contrasto con la volontà espressa nel Concilio Vaticano
II) affermando senza equivoci che «in tot varietate linguarum una (?)
eademque cunctorum precatio… quovis ture fragrantior ascendat».
La morte del latino è data dunque per scontata; quella del
gregoriano, che pure il Concilio riconobbe «liturgiæ romanæ proprium»
(Sacros. Conc. n. 116), ordinando che «principem locum obtineat»
(ibid.), ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l’altro, dei
testi dell’Introito e del Graduale.
Il nuovo rito è dato quindi in partenza come pluralistico e sperimentale, legato al tempo e al luogo.
Spezzata così per sempre l’unità di culto,
in che cosa consisterà ormai quell’unità di fede che ne conseguiva e di
cui sempre si parla come della sostanza da difendere senza
compromissioni?
È evidente che il Novus Ordo non vuole più rappresentare la fede di Trento.
A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno.
È evidente che il Novus Ordo non vuole più rappresentare la fede di Trento.
A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno.
Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.
VII
La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di pietà e
di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente. Il risultato
appare tale da respingere inorridito il fedele di rito orientale, tanto
lo spirito ne è, più che remoto, addirittura opposto.
A che si riducono queste scelte ecumeniche?
In sostanza
In sostanza
- alla molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza e complessità),
- alla presenza del diacono e alla comunione sub utraque specie.
Per contro, pare si sia voluto eliminare deliberatamente tutto
quanto, nella liturgia romana, era più prossimo all’orientale(26) e,
rinnegando l’inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a
ciò che più gli era proprio e spiritualmente prezioso. Lo si è
sostituito con elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a
quelli piú prossimi al cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo,
mentre vieppiù ne allontaneranno l’Oriente, come l’hanno già allontanato
le ultime riforme.
In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi, vicini
alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone l’organismo,
intaccandone l’unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare in una
crisi spirituale senza precedenti.
VIII
S. Pio V curò l’edizione del Missale romanum affinché (come
la stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità tra i
cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio Tridentino esso
doveva escludere ogni pericolo, nel culto, di errori contro la fede,
insidiata allora dalla Riforma protestante.
Cosí gravi erano i motivi del Santo
Pontefice che mai come in questo caso appare giustificata, quasi
profetica, la sacra formula che chiude la Bolla di promulgazione del suo
Messale:
«Si quis autem hoc attentare praesumpserit,
indignationem Omnipotenti Dei ac beatorum Petri et Pauli Apostolorum
eius se noverit incursurum» (Quo primum, 19 luglio 1570)(27).
Si è avuto l’ardire di affermare, presentando ufficialmente il
Novus Ordo alla Sala Stampa del Vaticano, che le ragioni del Tridentino
non sussistono piú. Non solo esse sussistono ancora, ma ne esistono
oggi, non esitiamo a dirlo, di infinitamente piú gravi. Proprio facendo
fronte alle insidie che minacciavano di secolo in secolo la purezza del
deposito ricevuto («depositum custodi, devitans profanas vocum
novitates», I Tim. 6, 20), la Chiesa dovette erigergli intorno le difese
ispirate delle sue definizioni dogmatiche e dei suoi pronunciamenti
dottrinali. Essi ebbero ripercussione immediata nel culto, che divenne
il monumento più completo della sua fede.
Volere ad ogni costo riportare questo culto all’antico, rifacendo
freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della
spontaneità primigenia, secondo quell’«insano archeologismo» cosí
tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII (28), significa –
come purtroppo si è visto – smantellarlo di tutte le sue difese
teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli(29), e
proprio in uno dei momenti più critici, forse il più critico che la
storia della Chiesa ricordi.
Oggi, non più all’esterno, ma all’interno stesso della cattolicità
l’esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta(30);
l’unità della Chiesa è non più soltanto minacciata ma già tragicamente
compromessa(31) e gli errori contro la fede s’impongono, più che
insinuarsi, attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente
riconosciute(32).
L’abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro secoli
segno e pegno di unità di culto (per sostituirla con un’altra, che non
potrà non essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che
implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa di insinuazioni o di
errori palesi contro la purezza della fede cattolica) appare, volendo
definirlo nel modo piú mite, un incalcolabile errore.
Corpus Domini 1969
(1) – «Le preghiere del nostro Canone si
trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) … La nostra
Messa risale, senza mutamento essenziale, all’epoca in cui si sviluppava
per la prima volta dalla piú antica liturgia comune.
Essa serba ancora il profumo di quella liturgia primitiva, nei
giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la
fede cristiana; i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti
l’aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio [cfr. Pl. jr., Ep.
96] …
Non vi è, in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile
quanto la Messa romana» (A. Fortescue). «Il Canone romano risale, tale e
quale è oggi, a San Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in
Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai
nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo
degli ortodossi, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno
ancora in qualche misura il senso della tradizione, gettarlo a mare
equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di
rappresentare mai più la vera Chiesa Cattolica » (P. Louis Bouyer).
(2) – In nota, per una tale definizione, si rimanda a due testi del
Concilio Vaticano II. Ma a leggere quei due testi non si trova nulla
che giustifichi tale definizione. Il primo testo (decreto Presbyterorum Ordinis,
n. 5) suona cosí: « …I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il
ministero del vescovo, in modo che… nelle sacre celebrazioni agiscano
come ministri di Colui che ininterrottamente esercita la funzione
sacerdotale in favore nostro nella Liturgia… E soprattutto con la
celebrazione della Messa offrono sacramentalmente il Sacrificio di
Cristo».
Ed ecco l’altro testo cui si rimanda (Costituzione Sacrosanctum Concilium,
n. 33): «Nella Liturgia Dio parla al suo popolo. Cristo annunzia ancora
il suo Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i canti e con
la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che
presiede l’assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di
tutto il popolo santo e di tutti gli astanti».
Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre la suddetta definizione.
Notiamo poi l’alterazione radicale, in questa definizione della
Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum Ordinis, 1254): «Est
ergo Eucharistica Synaxis centrum congregationis fidelium…». Fatto
sparire fraudolentemente il centrum, nel Novus Ordo la congregatio stessa ne ha usurpato il posto.
(3) – Cosí il Tridentino sancisce la Presenza Reale: «Principio
docet Sancta Synodus et aperte et simpliciter profitetur in almo Sanctæ
Eucharestiæ sacramento post panis et vini consacrationem Dominum nostrum
Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac
substantialiter [can. 1] sub specie illarum rerum sensibilium
contineri». (DB, 874). Nella Sessione XXII, che ci interessa qui
direttamente (De sanctissimo Missæ Sacrificio), la dottrina sancita (DB,
nn. 937a fino a 956) e chiaramente sintetizzata in nove canoni:
1. La Messa è vero, visibile sacrificio – non simbolica
rappresentazione – «quo cruentum illud semel in cruce peragendum
repræsentaretur atque illius salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a
nobis quotidie committuntur peccatorum applicaretur» (DB, 938).
2. Gesú Cristo Nostro Signore «sacerdotem secundum ordinem
Mechisedech se in æternum [Ps. 109, 4] constitutum declarans, corpus et
sanguinem suum sub specibus panis et vini Deo Patri obtulit ac sub
earundem rerum symbolis Apostolis (quos tunc Novi Testamenti sacerdotes
constituebat), ut sumerent, tradidit, et eisdem eorumque in sacerdotio
successoribus, ut offerent, præcepit per hæc verba: “Hoc facite in meam
commemorationem” [Lc. 22, 19; I Cor. 11, 24] uti semper catholica
Ecclesia intellexit et docuit». (DB, ibid.).
Il celebrante, l’offerente, il sacrificatore è il sacerdote, a ciò
consacrato, non il popolo di Dio, l’assemblea. «Si quis dixerit, illis
verbis: “Hoc facite” etc. Christum non instituisse Apostolos sacerdotes,
aut non ordinasse, ut ipsi aliique sacerdotes offerent corpus et
sanguinem suum: anathema sit» (Can. 2; DB, 949).
3. Il Sacrificio della Messa è un vero sacrificio propiziatorio e
NON una «nuda commemorazione del sacrificio compiuto sulla croce». «Si
quis dixerit; Missæ sacrificium tantum esse laudis et gratiarum actiones
aut nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem
propitiatorium; vel soli prodesse sumenti, neque pro vivis et defunctis,
pro peccatis, pœnis, satisfactionibus et aliis necessitatibus offeri
debere, a.s.» (Can. 3; DB, 950).
Si ricorda inoltre il can. 6: «Si quis dixerit Canon Missæ errores
continere ideoque abrogandum esse, a.s.»; (DB, 953) e il canone 8: «Si
quis dixerit Missæ, in quibus solus sacerdos sacramentaliter communicat,
illicitas esse, ideoque abrogandas, a.s.» (DB, 955).
(4) – Ora è superfluo asserire che, se venisse negato un solo dogma
definito, crollerebbero ipso facto tutti i dogmi, in quanto crollerebbe
il principio stesso della infallibilità del supremo solenne Magistero
Gerarchico, papale o conciliare che sia.
(5) – Si dovrebbe aggiungere anche l’Ascensione ove si volesse
riprendere l’Unde et memores, che d’altronde non accomuna ma nettamente e
finemente distingue: …«tam beatæ Passioni, nec non ab inferis
Resurrectionis, sed et in cœlum gloriosæ Ascensionis».
(6) – Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella
sorprendente eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento dei morti e
della menzione della sofferenza delle anime purganti, alle quali il
Sacrificio satisfattorio era applicato.
(7) – Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI condanna sia gli
errori del simbolismo che le nuove teorie della «transignificazione» e
«transfinalizzazione». «…aut ratione signi… ita instare quasi
symbolismus, qui nullo diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime
inest, totam exprimat et exhauriat rationem presentiæ Christi in hoc
Sacramento… aut de transubstantiationis mysterio disserere quin de
mirabili conversione totius substantiæ panis in corpus et totius
substantiæ vini in sanguinem Christi, de qua lonquitur Concilium
Tridentinum, mentio fiat, ita ut in sola “transignificatione” et
“transfinalizatione”, ut aiunt, consistant» (A.A.S. LVII, 1965, p. 755).
(8) – L’introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur
ricorrendo nei testi dei Padri e dei Concili e nei documenti
del Magistero, vengono usate in senso univoco, non subordinato alla
dottrina sostanziale con cui formano una inscindibile unità (p. es.
«spiritualis alimonia», «cibus spiritualis», «potus spiritualis», ecc.) è
ampiamente denunciata e condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI
premette che: «servata Fidei integritate, aptus quoque modus loquendi
servetur oportet, ne indisciplinatis verbis utentibus nobis falsæ, quod
absit, de Fide altissimarum rerum suboriantur opiniones»; cita
Sant’Agostino: «Nobis tamen ad certam regulam loqui fas est, ne verborum
licentia etiam de rebus, quæ significantur impiam gignant opinionem»
(De Civ. Dei, X, 23. PL, 41, 300); continua: «Regula ergo loquendi, quem
Ecclesia longo sæculorum labore non sine Spiritus Sancti munimine
induxit et Conciliorum auctoritate firmavit, quæque non semel tessera et
vexillum Fidei orthodoxæ facta est, sancte servetur, neque eam quisquam
pro lubitu vel prætextu novæ scientiæ immutare præsumat… Eodem modo
ferendus non est quisquis formulis, quibus Concilium Tridentinum
Mysterium Eucharisticum ad credendum proposuit, suo marte derogare
velit» (A. A. S. LVII, 1965, p. 758).
(9) – In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc., n. 48) il Vaticano II.
(10) – Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria:
«Altare, in quo sacrificium crucis sub signis sacramentalibus præsens
efficitur». Non sembra molto per eliminare gli equivoci dell’altra
costante denominazione.
(11) – «Separare il Tabernacolo dall’altare equivale a separare due
cose che in forza della loro natura debbono restare unite» (Pio XII,
Allocuzione al Congresso Internazionale di Liturgia, Assisi – Roma 18-23
settembre 1956). Cfr. anche Mediator Dei, I, 5.
(12) – Raramente è usata, nel Novus Ordo, la parola «hostia»,
tradizionale nei libri liturgici con il suo preciso significato
di «vittima». Ciò rientra nel sistema inteso a mettere in evidenza
esclusivamente gli aspetti di «cena» e di «cibo».
(13) – Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una
cosa per l’altra, la Presenza Reale viene equiparata alla presenza
nella parola (n. 7, 54). Ma questa è in verità di tutt’altra natura
perché non ha realtà che in usu, mentre quella è, in modo stabile, obbiettivamente, indipendentemente dalla comunicazione che se ne fa nel Sacramento.
Tipicamente protestanti le formule: «Deus populum suum alloquitur…
Christus per verbum suum in medio fidelium præsens adest» (n. 33,
, cfr. Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che, strettamente parlando,
non ha senso perché la presenza di Dio nella parola è mediata, legata a
un atto dello spirito, alla condizione spirituale dell’individuo e
limitata nel tempo.
L’errore non è senza la più tragica conseguenza: l’affermazione, o l’insinuazione, che la Presenza Reale sia legata all’usus e finisca insieme con esso.
(14) – L’azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come
avvenuta nel dare Gesú agli Apostoli «a mangiare» il suo Corpo e Sangue
sotto le specie del pane e del vino, e non nella azione della
consacrazione e nella mistica separazione in essa compiuta del Corpo e
del Sangue, essenza del Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I
della Parte II – «Il Culto Eucaristico» – della Mediator Dei).
(15) – Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel
contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtù dell’intenzione
del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono piú ex vi verborum o
più precisamente in virtù del modus significandi che avevano
finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non
avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al
Novus Ordo al fine di «fare ciò che fa la Chiesa» consacreranno
validamente? È lecito dubitarne.
(16) – Non si dica, secondo il noto procedimento della critica
protestante, che queste espressioni appartengono a quello
stesso contesto scritturistico. La Chiesa ne ha sempre evitato la
giustapposizione e sovrapposizione per rimuovere appunto la confusione
delle diverse realtà che detti testi esprimono.
(17) – Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti
i cristiani siano sacerdoti e perciò offerenti della cena v.
A. Tanquerey: Synopsis theologiæ dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: «Omnes
et soli sacerdotes sunt, proprie loquendo, ministri secundarii
sacrificii missæ. Christus est quidem principalis minister.
Fideles mediate, non autem sensu stricto, per sacerdotes offerunt ».
(Cfr. Cons. Trid. Sess. XXII, Can. 2).
(18) – Notiamo una innovazione impensabile e che sarà
psicologicamente disastrosa: il Venerdí Santo in paramenti rossi anziché
neri (n. 308b): la commemorazione cioè di un qualsiasi martire anziché
il lutto della Chiesa tutta per il suo Fondatore. Cfr. Mediator Dei, I, 5
(v. p. 36, nota 28).
(19) – P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet.
(20) – In alcune traduzioni del Canone romano, il «locus
refrigerii, lucis et pacis» veniva reso come un semplice
stato («beatitudine, luce, pace»). Che dire, ora, della sparizione di
ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante?
(21) – In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento: l’omissione, menzionata nell’accusa dei peccati al Confiteor…
(22) – Alla conferenza stampa in cui fu presentato l’Ordo, il P.
Lecuyer, in una professione di pura fede razionalistica, parlò di
convertire in «Dominus tecum», «Ora, frater», etc. le salutationes nella «Missa sine populo», «…perché non vi sia nulla che non corrisponda a verità ».
(23) – A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito,
ai sacerdoti che siano costretti a celebrare da soli prima o dopo la
concelebrazione, di comunicarsi di nuovo sub utraque specie durante
questa.
(24) – Che si è voluto presentare come «canone di Ippolito» mentre di quel canone serba appena qualche reminiscenza verbale.
(25) – Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969.
(26) – Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle preghiere
penitenziali, lunghissime, istanti, ripetute; ai solenni riti di
vestizione del celebrante e del diacono; alla preparazione, che è già un
rito completo in sé stessa, delle offerte alla proscomidia; alla
presenza costante, nelle orazioni e persino nelle offerte, della Beata
Vergine, dei Santi e delle Gerarchie Angeliche (che, nell’Entrata col
Vangelo sono addirittura evocate come invisibilmente concelebranti e con
le quali si identifica il coro nel Cherubicon); alla iconostasi
che nettamente separa santuario da tempio, clero da popolo alla
consacrazione celata, evidente simbolo dell’Inconoscibile a cui l’intera
Liturgia allude; alla posizione del celebrante versus ad Deum e mai versus ad populum; alla comunione amministrata sempre e solo dal celebrante; ai continui e
profondi segni di adorazione di cui sono fatte segno le Specie; all’atteggiamento essenzialmente contemplativo del popolo.
Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno solenni, durino
piú di un’ora, e le costanti definizioni che vi si trovano («tremenda e
inenarrabile liturgia», «tremendi, celesti, vivificanti misteri », ecc.)
bastino a dir tutto.
Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di
San Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio, come il concetto
di «cena» o di «banchetto» appaia chiaramente subordinato a quello di
sacrificio, così come lo era nella Messa romana.
(27) – Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il
Concilio di Trento manifesta la sua intenzione «ut stirpitus convelleret
zizania execrabilium errorum et schismatum, quæ inimicus homo… in
doctrina fidei usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit (Mt.
13, 25 ss.)… quam alioqui Salvator noster in Ecclesia sua tamquam
symbolum reliquit eius unitatis et caritatis, qua Christianos omnes
inter se coniunctos et copulatos, esse voluit» (DB, 873).
(28) – «Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque redire sapiens
perfecto ac laudabilissima res est, cum disciplinæ huius studium, ad
eius origines remigrans, haud parum conferat ad festorum dierum
significationem et ad formularum, quæ usurpantur, sacrarumque
cæremoniarum sententiam altius dividentiusque pervestigandam: non
sapiens tamen, non laudabile est omnia ad antiquitatem quovis
modo reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex recto aberret itinere,
qui priscam altari velit mensæ formam restituere; qui liturgicas vestes
velit nigro semper carere colore; qui sacras imagines ac statuas e
templis prohibeat; qui divini Redemptoris in Crucem acti effigies ita
conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat, quos passus
est, cruciatus… Hæc enim cogitandi agendique ratio nimiam illam
reviscere iubet atque insanam antiquitatum cupidinem, quam illegitimum
excitavit Pistoriense concilium, itemque multiplices illos restituere
enititur errores, qui in causa fuere, cur conciliabulum idem cogeretur,
quique inde non sine magno animorum detrimento consecuti sunt, quosque
Ecclesia, cum evigilans semper evistat “fidei depositi” custos sibi a
Divino Conditore concrediti, iure meritoque reprobavit» (Mediator Dei,
I, 5).
(29) – «…Non ci illuda il criterio di ridurre l’edificio della
Chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo
tempio magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che
quelle siano solo le vere, solo le buone…» (Paolo VI, Ecclesiam suam).
(30) – «Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide, spezza la Chiesa» (Paolo VI, Omelia in Cena Domini, 1969).
(31) – «Vi sono anche tra noi quegli «schismata», quelle «scissuræ»
che la prima lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra ammaestrante
lettura, dolorosamente denuncia» (cfr. Paolo VI, ibid.).
(32) – È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi
rinnegato proprio da coloro che si vantarono di esserne i padri; coloro
che – mentre il Sommo Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver esso
mutato nulla – ne partirono decisi a «farne esplodere» il contenuto in
sede di applicazione. Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai più
parve inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato, attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia,
una sempre crescente infedeltà al Concilio; che va dagli aspetti solo
apparentemente formali (latino, gregoriano, soppressione di riti
venerandi, ecc.) a quelli sostanziali consacrati dal Novus Ordo. Le
terribili conseguenze, che abbiamo tentato di illustrare, si sono
ripercosse, in modo psicologicamente forse ancora più catastrofico, nei
campi della disciplina e del magistero ecclesiastico, scuotendo
paurosamente, insieme con il prestigio, la docilità dovuta alla Sede
Apostolica.
——————–o0o——————–
Verona, chiesa dei S.S. Apostoli: pagliacciata conciliare con un’associazione dell’ ambiente omosex
di Franco Damiani e Palmarino Zoccatelli (Addetto Stampa del Circolo Christus Rex e Responsabile dell’Associazione Famiglia & Civiltà)
VERONA – Nell’antica e splendida chiesa dei S.S. Apostoli, il conciliarissimo parroco Ezio Falavegna, a capo della Vicaria del centro storico, già noto per le sue posizioni eterodosse e ultraprogressiste, ha promosso, lunedì sera, una rappresentazione definita “originale” della Passione di Gesù.
Dalla presentazione risultava che tra i partecipanti vi fossero anche attori/ballerini del “Circolo Gasp”, che promosse assieme ad “Arcigay” e al “Milk” (gruppo apertamente anticlericale) la sceneggiata “Divercity” al Camploy, nella primavera 2011, già duramente contestata dalle nostre associazioni perché propagandava, col patrocinio delle istituzioni locali (che non si sono mai scusate pubblicamente con la cittadinanza per quello scandalo!) un modello di unione differente da quello tradizionale, che è garantito dalla legge divina, dalla legge naturale e pure dall’ordinamento vigente. Sul blog del “Gasp” risulta, tuttora, apertamente la vicinanza ad “Arcigay” ed al “Milk”. Come cattolici ci chiediamo se fosse opportuno che la Vicaria del centro storico di Verona abbia aperto la Settimana Santa, in una chiesa consacrata cattolica, con uno show, al quale ha preso parte attiva un gruppo con tali credenziali, in evidente contraddizione, per usare un eufemismo, con la dottrina sociale della Chiesa.
************************
di Redazione
In principio furono gli anni Settanta con Jesus Christ Superstar. Passano gli anni e capita che le chiese vengono trasformate in veri e propri set teatrali, con tanto di impianti luce e fonici del mestiere (come da foto qui sotto). Per il teatro, va detto che i conciliari riescono ancora a riempire gli edifici sacri (sic!). Evento pubblico, pubblicizzato su L’Arena di domenica sotto la pagina dei defunti (pag. 24). Telecamere, giornalisti, fotografi presenti. Sottofondo musicale d’organo e coro di S. Cecilia. Falavegna nelle vesti di presentatore.
Per il resto, la solita, criptica pagliacciata conciliare, sicuramente inadatta in una chiesa, in cui una poetessa declamava dal pulpito, fanciulle di bianco vestite danzavano con ramoscelli d’ulivo, attori in abiti dell’epoca si sbizzarrivano tra navata ed abside, come il “bivacco” alla tavola usata per il “Novus Ordo”, sfilate avanti e indietro tra il pubblico sostenendo un drappo rosso, un uomo dal volto truce, vestito di nero che prima brandiva il consueto drappo rosso e poi una spada di legno ( a rappresentare cosa? Non meglio specificato), gli attori in cadenzata processione con abiti e cappuccio rosso (come le antiche confraternite? O altro?) che portavano oggetti non meglio identificati. Di certo, se avessero rappresentato le antiche confraternite, sono stati utilizzati colori e abiti sbagliati, quindi una ricostruzione eventualmente approssimativa, in un contesto che, comunque, dava agli spettatori più accorti, a tratti attoniti o stupiti, altre inquietanti sensazioni… Poi un attore personificava Gesù, voltato mezzo nudo sulla tavola “Novus Ordo” e poi trasportato su di un lenzuolo lungo la navata dai figuranti. (questa foto è a disposizione della Redazione)
Documentazione fotografica:
A lato: due fanciulle con rami verdi e attore istrionico dietro la tavola usata per il “Novus Ordo”
A lato: la poetessa che ha declamato dal pulpito per tutta la durata dello show
Attori con cappucci rossi in processione, portano drappi rossi e oggetti non meglio identificati. A rappresentare le antiche Confraternite? L’impressione non era quella…
Incappucciati accolti dal “Gran Maestro”?
Rappresentazione mal ricostruita delle antiche Confraternite?
Il “bivacco” degli attori e delle “amazzoni” con l’ “uomo nero”
che brandisce la spada su un altro attore sdraiato sul tavolo “Novus Ordo”, altri coi soliti drappi rossi
VERONA – Nell’antica e splendida chiesa dei S.S. Apostoli, il conciliarissimo parroco Ezio Falavegna, a capo della Vicaria del centro storico, già noto per le sue posizioni eterodosse e ultraprogressiste, ha promosso, lunedì sera, una rappresentazione definita “originale” della Passione di Gesù.
Dalla presentazione risultava che tra i partecipanti vi fossero anche attori/ballerini del “Circolo Gasp”, che promosse assieme ad “Arcigay” e al “Milk” (gruppo apertamente anticlericale) la sceneggiata “Divercity” al Camploy, nella primavera 2011, già duramente contestata dalle nostre associazioni perché propagandava, col patrocinio delle istituzioni locali (che non si sono mai scusate pubblicamente con la cittadinanza per quello scandalo!) un modello di unione differente da quello tradizionale, che è garantito dalla legge divina, dalla legge naturale e pure dall’ordinamento vigente. Sul blog del “Gasp” risulta, tuttora, apertamente la vicinanza ad “Arcigay” ed al “Milk”. Come cattolici ci chiediamo se fosse opportuno che la Vicaria del centro storico di Verona abbia aperto la Settimana Santa, in una chiesa consacrata cattolica, con uno show, al quale ha preso parte attiva un gruppo con tali credenziali, in evidente contraddizione, per usare un eufemismo, con la dottrina sociale della Chiesa.
************************
di Redazione
In principio furono gli anni Settanta con Jesus Christ Superstar. Passano gli anni e capita che le chiese vengono trasformate in veri e propri set teatrali, con tanto di impianti luce e fonici del mestiere (come da foto qui sotto). Per il teatro, va detto che i conciliari riescono ancora a riempire gli edifici sacri (sic!). Evento pubblico, pubblicizzato su L’Arena di domenica sotto la pagina dei defunti (pag. 24). Telecamere, giornalisti, fotografi presenti. Sottofondo musicale d’organo e coro di S. Cecilia. Falavegna nelle vesti di presentatore.
Per il resto, la solita, criptica pagliacciata conciliare, sicuramente inadatta in una chiesa, in cui una poetessa declamava dal pulpito, fanciulle di bianco vestite danzavano con ramoscelli d’ulivo, attori in abiti dell’epoca si sbizzarrivano tra navata ed abside, come il “bivacco” alla tavola usata per il “Novus Ordo”, sfilate avanti e indietro tra il pubblico sostenendo un drappo rosso, un uomo dal volto truce, vestito di nero che prima brandiva il consueto drappo rosso e poi una spada di legno ( a rappresentare cosa? Non meglio specificato), gli attori in cadenzata processione con abiti e cappuccio rosso (come le antiche confraternite? O altro?) che portavano oggetti non meglio identificati. Di certo, se avessero rappresentato le antiche confraternite, sono stati utilizzati colori e abiti sbagliati, quindi una ricostruzione eventualmente approssimativa, in un contesto che, comunque, dava agli spettatori più accorti, a tratti attoniti o stupiti, altre inquietanti sensazioni… Poi un attore personificava Gesù, voltato mezzo nudo sulla tavola “Novus Ordo” e poi trasportato su di un lenzuolo lungo la navata dai figuranti. (questa foto è a disposizione della Redazione)
Documentazione fotografica:
A lato: due fanciulle con rami verdi e attore istrionico dietro la tavola usata per il “Novus Ordo”
A lato: la poetessa che ha declamato dal pulpito per tutta la durata dello show
Attori con cappucci rossi in processione, portano drappi rossi e oggetti non meglio identificati. A rappresentare le antiche Confraternite? L’impressione non era quella…
Incappucciati accolti dal “Gran Maestro”?
Rappresentazione mal ricostruita delle antiche Confraternite?
Il “bivacco” degli attori e delle “amazzoni” con l’ “uomo nero”
che brandisce la spada su un altro attore sdraiato sul tavolo “Novus Ordo”, altri coi soliti drappi rossi
——————o0o——————
Subscrever:
Enviar feedback (Atom)
Sem comentários:
Enviar um comentário